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- L’esperienza di Lorenzo.
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Ciao, sono Lorenzo e la mia storia inizia nella tarda primavera del 2008.
Verso la fine di aprile comincio ad avvertire dei dolori al testicolo destro, ma non dico nulla e sopporto il male pensando che tutto sia dovuto al fatto che spesso vado in bici e il sellino e i pantaloncini aderenti hanno infiammato la zona. Una sera di fine giugno, però, un mio amico medico mi spinge a fare un’ecografia al testicolo: la mattina seguente ero già al Poliambulatorio sotto casa, dove ricevo la tremenda notizia.
Io, come molti altri, ho dovuto vincere mille remore: l’idea di esporre “quelle parti“, farmele analizzare, mi metteva un gran imbarazzo. La radiologa, la stessa che poi in tutti questi anni mi ha seguito, mi consiglia di rivolgermi immediatamente a un urologo e pronuncia la parola: tumore.
Da quel momento e per tutta la malattia comincio a osservare le cose dall’esterno: esco dal poliambulatorio, chiamo il mio compagno e glielo dico in modo brusco, insistendo sull’urgenza e non sulla gravità (forse neppure io me ne rendo conto). Decido di non dire nulla a mia madre, per non farla preoccupare, e la invito a venire a Bologna dal Salento (mia terra d’origine).
Nel frattempo inizia il mio percorso di cura, ma prima di descriverlo devo fare una premessa: molti particolari non li ricordo e non ho voglia di andare a rileggere le cartelle cliniche perché mi procura ansia. In fondo quello che voglio raccontare non è lo stadio del mio carcinoma, ma quello che ho sentito, e quello lo ricordo bene, ahimè!
Dopo 7 giorni mi operano d’urgenza: di quel giorno ricordo la notte precedente totalmente in bianco, l’attesa dalle 7 alle 12 per l’anamnesi, poi la preparazione (“Maria a questo fagli il pantaloncino”, che significava depilarmi totalmente nella zona interessata, con le misure di un costume da bagno), la camicia da notte ridicola (aperta dietro, che faceva vedere tutto mentre camminavo in corsia).
Poi blackout, mi risveglio alle 16 con una fame boia e mi portano un piatto di pastina in brodo, la mangio guardando il mio amico Vincenzo che mi guarda, fa finta di sorridere e copre le lacrime.
L’indomani mattina mi dimettono prestissimo, esco bevo un caffè e fumo una sigaretta mentre aspetto i miei: arriva mia mamma, mia sorella Patrizia e miei suoceri che mi accompagnano a casa. Quasi subito riprendo la vita normale: lavoro, passeggiate, pranzi e cene, sembra tutto quasi normale. Quasi. La ferita dell’intervento di rimozione del testicolo destro e del canale si sta rimarginando, ma la parte finale va in infezione.
Dopo circa venti giorni ricevo la telefonata di esito dell’esame istologico: non-seminoma, carcinoma embrionario con cellule di teratoma. Nel frattempo faccio una Tac: risultano metastasi al polmone sinistro (due) e al destro (una).
L’urologo mi convoca e poi mi indirizza alla dottoressa Michela Maur del Centro Oncologico Modenese.
Mi aspetto una donna tipo professoressa severa: mi trovo invece di fronte una mia coetanea (avevo 37 anni io e 36 lei), molto pratica, decisa, veloce. Mi parla della PEB e mi dice a cosa andrò incontro, ma mi dice di stare tranquillo perché le percentuali di guarigione sono altissime.
Si apre il capitolo della chemioterapia…che per me equivale a una specie di incubo.
Spaventato, agitato, nervosissimo, comincio ad avere la nausea prima ancora di iniziare la cura. Quando ero piccolo, spesso nel tornare dalla spiaggia guardavo l’ospedale di Gallipoli e mia madre diceva qualche volta: pensa quanta povera gente sta soffrendo adesso, d’estate, in un momento in cui tutti sono in vacanza e si divertono.
Comincio la chemio il 5 agosto, con Bologna che inizia a essere poco affollata: all’alba prendo un taxi e racconto tutto al conducente, mi porta in stazione, prendo un treno e arrivo al Policlinico di Modena. Ecco, qui si è fissata un’immagine: io seduto su una panchina sul prato perché il reparto era chiuso, solo, attimi che sembrano una vita, forse sono una vita, poi arriva Mirella, mia suocera, e poi arriva la telefonata del tassista: avevo scordato gli occhiali da sole, si è fatto dare il numero dal centralino e mi ha chiamato per dirmi che li avrebbe custoditi per consegnarmeli di persona (cosa che ha fatto, con un garbo e un’emozione che ricordo).
Inizia la chemio e io spavaldo dico “è tutto qui?“.
Non è tutto lì: finiti i cinque giorni di cura, vado a casa e inizia il “ballo” che peggiorerà ad ogni ciclo (ne farò cinque alla fine).
Cercherò di non descrivere troppo, anche per non caricare di negatività chi questa percorso dovrà iniziarlo: dico solo che nausea, mal di testa, debolezza, tremore, insonnia, stanchezza, dolori muscolari e articolari, erano all’ordine del giorno.
Passano i giorni e i capelli non cadono. Una sera poi, a casa di mia sorella Paola, vengo su dalla spiaggia e le chiedo di fare una doccia veloce. Tutta la mia famiglia è nel soggiorno e io sono nella cabina doccia del bagno adiacente al soggiorno che non so cosa fare: sono bagnato e coperto dai miei capelli, mi vergogno, ho sporcato il bagno di capelli, cerco di raccoglierli e buttarli nel water, alzo la testa e incrocio la mia immagine nello specchio.
Chi mi conosce sa che sono vanitoso, ma in quel momento quello che vedo non è Lorenzo-brutto è Lorenzo-malato. Un trauma che mi ha accompagnato al punto che ancora oggi non posso immaginare di portare i capelli più corti di 3-4 cm.
Sono nel panico: so già che farò soffrire i miei familiari, mi preoccupo di non intristirli, indosso uno dei miei sorrisi migliori ed esco. Percepisco il gelo, il “non ti preoccupare che ricrescono”, le pacche, l’evitare l’argomento. Poi Marco, mio nipote, mi dice “Enzo, prendo la macchinetta e ti sistemo quelli rimasti”. L’ho molto apprezzato.
Della chemio non aggiungerò molto: periodo orrendo che non mi fa piacere ricordare, con mille amici che mi hanno salutato, i ricoveri improvvisi, i problemi fisici, la trombosi. Ricordo però in ospedale tanto affetto, tantissimo. Il mio compagno Massimo, mia madre, mia suocera, la Maur, le ragazze dell’ospedale (specializzande che io chiamavo
le ragazze), le mie sorelle e i miei fratelli che mi fanno una sorpresa costata loro 2000 chilometri, gli infermieri.
Ecco, posso dire una cosa su questa categoria? Nella vita delle cure, delle guarigioni, delle malattie, si parla sempre dei medici e degli ospedali in genere: io ho scoperto che per 24 ore mi relaziono con gli infermieri, che sono perfetti, buoni, pazienti.
C’é una di loro, una ragazza piccolina, un topolino dico io, che ogni tanto di notte viene a guardarmi e commossa mi fa le carezze al braccio sinistro. Mi guarda con gli occhi lucidi e mi massaggia ancora il braccio. Sa che ho molto male per via della flebite e allora mi dice “mi faccio perdonare così per tutti i buchi che ti faccio”. Ricordo indelebile.
In questo periodo conosco gente che amo: Eugenio, Paolo e Giuliano.
Giuliano è un uomo burbero, con le sopracciglia folte: quando entra in stanza io penso “ma chi cazzo mi hanno mandato”. Dopo due ore è amore: lui mi racconta dei suoi 50 anni passati alla dogana di Campogalliano, con i russi che gli portavano le sigarette strane e la vodka buona, mi racconta della guerra, di sua sorella piccola che lui deve proteggere dai tedeschi, delle corse nei campi, delle sue malattie. Io gli racconto della mia famiglia meridionale, dei miei sette fratelli, del chiasso di casa mia, delle ricette. A volte non ci raccontiamo nulla ma è come se lo facessimo.
Siccome io mangio come un bue, mi portano il cibo dal self Service dell’ospedale: lo divido con Giuliano e lui mangia con appetito. Sua moglie Pia mi regala un grosso pezzo di parmigiano reggiano e una boccetta di aceto balsamico di quello buono. Poi arriva il vero regalo: Giuliano è un pittore di miniature e me ne regala quattro, bellissime, perfette, con colori caldi, quadri che portano alla introspezione perché c’è tanta solitudine dentro. Scrivo di Giuliano e mi commuovo.
È quasi la fine della chemio e mi devono operare al polmone sinistro perché c’è una massa che non va via. Giuliano mi saluta e mi dice “io me ne vado e tu guarirai”: è vero.
Torno a trovarlo dopo 15 giorni e lo trovo quasi incosciente a causa di un ictus: mi guarda e non so se mi riconosce. Esco incazzato dalla stanza. Non è possibile.
Il dottor Morandi è il chirurgo toracico, un padre, buono e caldo come tanti emiliani.
Anche dell’operazione non ho tanto piacere a parlare: è stata molto dolorosa e ci ho messo un mese a rimettermi in piedi. Comunque, mi asportano una parte del lobo superiore sinistro e guarisco.
Il mio percorso dura circa 6 mesi e ne esco vincitore: sono felicissimo, ma sono ferito nel corpo e nell’anima. Tante cose le ho rimosse, tante altre le avrei volute cancellare ma non vanno via.
Scrivere la mia storia mi ha portato indietro nel tempo, ha risvegliato ricordi sbiaditi, ha fatto uscire lacrime sepolte. Non è stato facile. Volutamente non ho descritto tante cose perché i destinatari della storia possono essere ragazzi che stanno affrontando il cancro e potrei portarli su strade sbagliate, ma sono qui a disposizione per ogni curiosità. Nel frattempo la vita è ripresa ed è bellissima.
Lorenzo